Il Gattopardo e gli altri animali

di Marcello Veneziani- 07 Marzo 2025

Torna in scena in tv il Gattopardo e torna la frase celebre e fraintesa che tutti ripetono del romanzo di Tomasi di Lampedusa – “bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima”. Ma il romanzo non è un manifesto dell’italico trasformismo, non confondiamo i camaleonti e i voltagabbana con la nobile stirpe dei gattopardi. Il gattopardo è un fiero felino e la sua trasfigurazione araldica lo conferma. E’ rampante, non mutante, tantomeno questuante. Ma ancor più lo conferma il Principe di Salina, anche nella indimenticata versione cinematografica di Luchino Visconti. Il Gattopardo è il contrario di un opportunista, un voltabandiera, uno che auspica che cambi tutto perché tutto poi resti come prima. E’ un disincantato signore che con elegante malinconia meridionale abdica alla vita, si ritira dal mondo ed entra con regale lievità nel regno del passato. Don Fabrizio cede il passo con distaccata galanteria e un velo di disgusto ai parvenu, agli arrampicatori sociali e ai nuovi dominatori. Il Gattopardo non è un manuale di sopravvivenza per galleggiare, ma un trattato di stile sulla nobiltà del ritirarsi e corteggiare la morte. Il Gattopardo affonda col proprio mondo accennando una smorfia di sorriso, è un vinto alla sua cerimonia d’addio, non un furbetto trasformista che si attrezza per farla franca. Il Gattopardo descrive l’esatto contrario del tipico italiota che sopravvive ai regimi e alle mode. Nel naufragio conserva inalterata l’eleganza. Non confondiamo il principe di Salina col principe de Curtis, in arte Totò, in Uomini e Caporali, in cui i regimi cambiano ma i caporali restano sempre al comando e infieriscono sulle brave persone; uomini e caporali è la variante del prezzoliniano divario italiano tra i furbi e i fessi. Il principe di Tomasi è di un altro rango, oltre che di un altro mondo, di un altro tempo, vive su un altro piano; non sarà mai caporale, tantomeno furbo o arrivista.

E’ curioso invece notare che il miglior romanzo dedicato al Risorgimento (per altri versi lo fa anche I Viceré di De Roberto che ne è il precedente e in fondo l’archetipo) non ne celebri il trionfo ma sia visto con l’occhio dei vinti; le sconfitte sono meno volgari delle vittorie e ispirano più alta letteratura, anche se non hanno il lieto fine. “Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo” dice Consalvo dei Viceré a sua zia, “la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa”. Su quel solco cammina il Gattopardo, che è per così dire la risposta “palermitana” al romanzo “catanese”. (Le due Sicilie tanto simili e tanto opposte).

L’occhio disincantato di Tomasi, tuttavia, cede talvolta agli incanti. Al Gattopardo viene di associare la magia di un altro suo racconto d’incantesimi, la Sirena. “La nostra ombrosa ragione, per quanto predisposta, s’inalbera dinanzi al prodigio e quando ne avverte uno cerca di appoggiarsi al ricordo di fenomeni banali; essa, con stupefacente vigoria emerse diritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito”… Dal disincanto del Gattopardo all’incantesimo della Sirena che salva dalla follia e dalla realtà.

Apriamo qui una parentesi per una considerazione in sovrappiù, che nulla toglie o aggiunge all’opera e all’indole impolitica dell’autore. Il Gattopardo è uno dei rari libri autenticamente conservatori che abbia espresso l’Italia repubblicana. Che sia stato pubblicato da Feltrinelli, dopo alcuni rifiuti, e sia arrivato alla gloria postuma, nonostante la sua dissonanza dal clima dell’epoca in cui viene pubblicato, denota da un verso la povertà editoriale, politica e culturale del mondo conservatore in Italia; ma anche la penuria di veri geni creativi nella cultura egemone progressista. Che negli anni ha disposto di fabbriche culturali, di organizzazioni intellettuali, di cenacoli e perfino di sette ma era carente di vette letterarie, di autori di prima grandezza. Vorrei dire Italo Calvino, potrei dire Moravia, altri due o tre ma non andrei molto oltre. Quel che resta, alla fine, sono le opere dei vinti, i Tomasi e i Buzzati, i Mario Praz e i Guido Morselli, i Giuseppe Berto e i Carlo Alianello, gli Eugenio Corti e i Giuseppe Ungaretti, le Cristina Campo e i Carlo Sgorlon, i Giovannino Guareschi e i Curzio Malaparte. O di vinti a disagio nel campo dei vincitori, come Cesare Pavese e Pierpaolo Pasolini, e per certi versi Elio Vittorini. O non comprimibili, non riconducibili a questo o a quel mondo, perché poeti esistenziali, ermetici, refrattari, impolitici, come Eugenio Montale o Gadda.

Per tornare invece a Tomasi e alla sua Sicilia, anche il suo Gattopardo vive il tenebroso bagliore della Sicilia, la sua attrazione del buio e della notte, per sottrarsi all’ineluttabile prestigio del sole e alla dittatura della sua luce imperiosa e calorosa. Per Pirandello la luce accecante addormenta le coscienze dei siculi e li induce alla complicità del tacere. Il ruolo decisivo della controra, l’ora contraria all’agire per sottrarsi alla calura dei demoni meridiani, nell’antropologia siciliana riverbera nella letteratura siciliana da Vitaliano Brancati a Tomasi di Lampedusa. La canicola rende invocata l’oscurità della notte; la luce non solo abbaglia e acceca – sviluppando così l’immaginazione surreale – ma paralizza, combinandosi con la calura. Unica arma difensiva, oltre l’ombra, il ventaglio, tenda di pizzo portatile. Segue a reverenziale distanza la granita, ristoro apparente e momentaneo, ma di indubbia goduria al palato. Il peccato mortale per i Siculi, dopo il fare è svelare, o peggio chiarire. “Nonostante la sua intensità, o forse a causa di questa – scrive Brancati in Paolo il caldo – la luce del sud rivela nella memoria una profonda natura di tenebra. Nella sua esorbitanza, varca continuamente i confini del regno opposto”. Troppa luce invoca troppe tenebre, troppa vita richiama troppa morte. L’intreccio fatale di rassegnazione e immobilità che ne deriva è pure lo sfondo del Gattopardo dove i cambiamenti scrostano le superfici ma non raggiungono le matrici. Colpa del clima torrido, che rende irredimibile quella terra, sotto una luce di cenere, come dice il notabile piemontese Aimone Chavalley. Alla fine anche gli dei che abitarono miticamente la Sicilia, stanchi della luce soprannaturale, si fecero fenomeni naturali e perfino climatici. Cercarono l’ombra per trovare riposo. Il Gattopardo avrebbe potuto titolarsi, seguendo de Roberto, I vicedei: narra di una stirpe di dei mortali, o di semidei, vicari in terra, nati da una dea e un mortale; il loro tallone d’Achille era il tempo. Dopo di loro non nacquero altri gattopardi, ma come vaticinò don Fabrizio, dopo di noi verranno gli sciacalletti e le iene.

(Senza eredi, Marsilio)