100 giorni di Gaza

Cento giorni di Gaza. Morte, sofferenza e distruzione aleggiano nell’area più densamente popolata del mondo.

Con soli 365 kmq e oltre 2ml di persone, Gaza è una delle zone più densamente popolate al mondo. Per oltre cento giorni, il mondo ha assistito ad un vero e proprio massacro di civili. Oltre il 70% dei decessi sono donne e bambini.

Ad oggi, si contano 23mila morti, ma vanno calcolate le oltre 8mila persone che si trovano ancora sotto le macerie, e ,a dire la verità, ancora non si conoscono i numeri precisi. Infatti le autorità della sanità palestinese, fin dai primi giorni dopo la risposta sproporzionata di Israele, già non aveva gli strumenti per calcolare con precisione i morti, i feriti e i dispersi.

I danni incalcolabili, come in ogni conflitto, sono gli oltre 60mila feriti, tra amputati o gravemente disabili. Ciò che questo conflitto ha orrendamente evidenziato, se non confermato, è la mancanza di organi internazionali in grado di intervenire prontamente per far rispettare il diritto internazionale.

Gli schieramenti sono palesi, già dalle votazioni al Consiglio di Sicurezza dell’ ONU, dove gli Stati Uniti hanno ribadito il loro appoggio ad Israele, attraverso il veto posto durante le risoluzioni proposte da vari paesi (tra cui Brasile e Federazione Russa), bloccando così ogni possibilità di un cessate il fuoco e quindi di impedire altre morti civili.

Oltre alle posizioni ufficialmente prese negli organi internazionali, ci sono sostegni di tipo economico e di forniture militari.

I paesi europei che hanno votato contro durante la seduta del 28 ottobre dell’Assemblea Generale dell’Onu sono: Italia, Germania, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia e Svezia.

A favore della risoluzione hanno votato Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Malta, Lussemburgo, Belgio e Slovenia.

Dietro all’ipocrisia dimostrata dalla maggioranza dei paesi europei, va vista sicuramente una vile visione “strategica” data da rapporti economici, concessioni petrolifere e di concessioni di esplorazione di giacimenti di gas.

Come nel caso dell’italiana Eni e dell’inglese Dana Petroleum le quali hanno ottenuto i permessi da Israele di cominciare l’esplorazione di gas vicino al giacimento Leviathan, a pochi chilometri dalle coste palestinesi.

Il pericolo più imminente da affrontare nei prossimi giorni sarà l’inevitabile allargamento del conflitto, iniziato da Israele già qualche settimana fa con i bombardamenti prima nel sud del Libano, poi con l’attentato a Beirut, stato sovrano, colpendo uno dei capi della Brigata Qassam, ala armata di Hamas.

Inoltre l’efficiente blocco navale portato avanti dai leader dello Yemen, gli Houthi, ha da subito destato allarme oltre che alle potenze americane e britanniche anche ai padroni indiscussi dei petroldollari: i Sauditi.

Anche se ufficialmente, in quanto paese arabo, sostiene la Palestina, l’Arabia Saudita in realtà continua a portare avanti i propri interessi economici, girandosi di spalle ai problemi dei fratelli palestinesi.

UK e USA attaccano lo Yemen e la maggioranza dei leader europei non tacciono, ma sostengono la strategia di attacco preventivo, confondendo la difesa delle imbarcazioni commerciali nel Golfo di Aden con l’illegale attacco delle due super potenze.

Ovviamente ciò porterà anche l’Iran, che fino ad oggi oltre a sostenere Hamas e Hezbollah e ricevere un attentato durante la ricorrenza della morte di Soleimani, non è intervenuta militarmente, a rivedere le sue prossime azioni.

La speranza è che qualcuno cominci a parlare di de-escalation e di un cessate il fuoco a Gaza, terra di arte e prosperità.